| §*Fayr*§ |
| | ♥ Capitolo IV ~ Prigioniero
Il Capitano ordinò ai gorilla di accerchiare ordinatamente lui e Fion, celandoli accuratamente alla vista dei passanti con i propri corpi, per non rischiare che quella maledetta maga lo salvasse come aveva fatto l’ultima volta - se avesse osato riprovarci, le avrebbe segato personalmente le gambe con un coltello arrugginito, ma solo dopo una lenta e accurata tortura. Le guardie obbedirono senza pensare e scortarono il prigioniero nella cella più lurida e isolata a loro disposizione - e avevano l’imbarazzo della scelta. «Vedi di stare a cuccia stavolta, Pulcino, o dovremo tagliarti le ali... e non solo» lo sbeffeggiò il Capitano, spingendolo dentro con tanta forza da farlo cadere faccia a terra. Fion tentò di rispondere per suggerirgli educatamente di tornare a pulire le latrine, ma il bavaglio gli impedì di sfoggiare il suo nuovo vocabolario di insulti, imprecazioni et similia. Il Capitano, però, intuì ugualmente cosa il Mezzo stava pensando e rise sguaiatamente. «In un’altra vita, magari» rispose, tra una risata e l’altra, chiudendo la porta a tripla mandata e abbandonandolo definitivamente a se stesso. “Ridi adesso, Capitano, perché quando uscirò di qui...” lo minacciò mentalmente Fion, accatastando torture su torture mentre lottava con la corda che gli segava i polsi come un contorsionista in un campo di ortiche: ogni movimento era una fitta di dolore e una stilettata di rabbia, accompagnata da una pioggia di insulti e minacce per il Capitano. Quando riuscì finalmente a liberarsi si era fatto buio da un pezzo, e se non fosse stato per il suo stomaco - che implorava di riempirsi - non se ne sarebbe accorto. Si alzò barcollando da terra e si lasciò cadere sul pagliericcio puzzolente nell’angolo sotto la finestra, chiudendo gli occhi e coprendoli con il braccio. “Anche questo è colpa tua, fratello...” pensò, furioso: tutto ciò che non andava nella sua vita era colpa di Soron, e la ciliegina sulla torta era che probabilmente sarebbe morto al posto suo molto presto, così sarebbe stato finalmente libero di farsi una nuova vita, tornare nell’Oiwenya Taure, se gli andava, e Shaluriel sola avrebbe potuto dire cos’altro. «Che la terra si apra e ti inghiotta...» gli augurò, scivolando rapidamente in un sonno profondo e senza sogni.
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Un caparbio raggio di Sole penetrò a forza nella cella umida, destreggiandosi tra le ragnatele che i laboriosi insetti avevano tessuto tra una sbarra e l’altra, solleticando le palpebre di Fion. Il Mezzelfo tentò di scacciarlo come una mosca fastidiosa e si voltò dall’altra parte: il suo subconscio, a metà strada tra il sonno e la veglia, gli suggeriva che il sonno lo avrebbe aiutato a dimenticare momentaneamente i morsi della fame, visto che comunque non aveva niente di meglio da fare se non aspettare la morte a stomaco vuoto. Si accoccolò meglio su se stesso e involontariamente annuì a quel suggerimento, ma prima che potesse assopirsi nuovamente, una guardia bussò violentemente contro la sua porta, deciso a svegliarlo anche a costo di sfondarla. «Alzati!» ordinò, sommergendolo di epiteti irripetibili di cui probabilmente non conosceva nemmeno il significato. Fion si sfregò pigramente il volto con le mani e si alzò in piedi come un burattino mosso da un marionettista maldestro. “E così morì il Falco al posto dell’Aquila.” pensò acidamente, sbadigliando senza rendersene conto. Il soldato ghignò, facendo scattare la serratura e approfittando della stanchezza del Mezzo gli serrò attorno ai polsi due bracciali di piombo con i bordi uncinati, così che se pure avesse avuto la forza di sollevarli, avrebbe rischiato di morire dissanguato al minimo movimento. “O da queste parti amano particolarmente fare del male, oppure Soron è il Nemico Pubblico Numero Uno.” considerò Fion, con un sarcasmo decisamente fuori luogo, studiando le pesanti catene che lo legavano alla cinta del soldato. “Se riuscissi ad afferrarle potrei cercare di farlo cadere...” pensò, man mano che la lucidità e l’istinto di sopravvivenza riprendevano la loro sede naturale e scacciavano gli ultimi fumi del sonno dalla sua mente. «Non ci pensare neanche.» disse improvvisamente il soldato, svoltando a destra e strattonando pericolosamente le catene. «A che cosa?» chiese Fion, ingoiando un gemito di dolore: gli uncini gli avevano sfregiato dolorosamente la pelle chiara e poco era mancato che due o tre si infilassero nella carne o in una vena, facendo fare le capriole al suo stomaco vuoto. «A cercare di liberarti.» rispose la guardia, rivelandosi meno stupida di quanto il Mezzo aveva supposto. «L’ultimo che ci ha provato è morto dissanguato a dieci passi dal patibolo: ci sono volute due giorni per pulire tutto il sangue che si è lasciato dietro.» aggiunse, gongolando come un bambino davanti a un vassoio di biscotti. Fion rabbrividì di disgusto e quando realizzò che anche lui stava per penzolare dalla forca gli venne da vomitare: fino ad allora aveva sempre avuto la possibilità di combattere per restare in vita, ma con quei bracciali mortali ai polsi e nemmeno un’arma tra le mani si sentiva più che altro come un capro espiatorio che si avvia impotente verso l’altare sacrificale. Deglutì, seguendo il soldato nell’ennesima svolta con la rabbia che montava sempre di più ad ogni passo: non era giusto che morisse al posto di Soron, ma soprattutto non era giusto che non potesse rivedere sua sorella prima di morire, che non potesse dirle... e improvvisamente gli venne un’idea: poteva tentare di distrarre il soldato con qualche chiacchiera e farlo rallentare abbastanza da rubargli le chiavi che vedeva penzolare dalla cinta. Qualche uncino gli entrava nella carne? Pazienza, non era certo la prima volta! Se fosse riuscito a fuggire avrebbe potuto comunque medicarsi non appena fuori dalle mura, e che la peste si portasse Soron e tutti i suoi maledetti problemi: sarebbe tornato all’Oiwenya Taure a qualunque costo. «Ehi...» iniziò a dire, alzando lo sguardo verso la nuca del soldato, ma quello non rispose. «Ehi...» tentò di nuovo, ma quello lo ignorò ancora, troppo impegnato a controllare i brividi che lo facevano tremare dalla testa ai piedi per prestare attenzione ai suoi tentativi di fuga. Fion lo guardò preoccupato, non riuscendo a capire cosa stava succedendo: era come se i muscoli sotto la pelle avessero iniziato a sciogliersi e a bollire senza motivo, né scopo, mentre i capelli iniziavano a spuntare dall’elmo, crescendo a un ritmo inaudito. «Maledizione!» masticò tra i denti la guardia, con una voce ben diversa da quella che lo aveva svegliato, quasi femminile. Si guardò attorno circospetta e decise di fare l’unica cosa possibile. «Corri!» ordinò, cercando di non urlare per non attirare l’attenzione: ci mancava solo quello e poi poteva scavarsi la fossa. «Cosa?!» chiese Fion, che non ci stava capendo più niente, obbedendo comunque per adattarsi al passo della guardia. «Dopo» biascicò la “guardia”, infilandosi in un cunicolo laterale: ormai non aveva più senso tentare di tenere in piedi quella mascherata, quindi tanto valeva liberarlo e pregare gli Dei di non incontrare nessuno. Sfogliò freneticamente il mazzo di chiavi e in pochi secondi liberò i polsi del Mezzelfo e sganciò le catene dalla cintola, nascondendole in un angolo buio. Stava per ripetere al Mezzo di correre come il vento, ma una fitta di dolore al torace le tolse il fiato, mentre la muscolatura tozza tornava fin troppo rapidamente ad essere quella di una giovane donna dagli intensi occhi di giada. “Giuro che non userò mai più questo incantesimo.” promise, massaggiandosi il ventre con entrambe le mani per ricacciare indietro il bisogno di vomitare. Fion, allibito, aprì la bocca per parlare, ma lei glielo impedì coprendola con la destra e scuotendo energicamente il capo. Il Mezzo deglutì e annuì meccanicamente, intuendo distintamente che obbedire a quella misteriosa ragazza era la cosa migliore, se voleva uscire vivo da quella prigione. Lei gli sorrise rassicurante e ritrasse la mano, dopo di che si tolse l’elmo e ogni parte dell’armatura che le sarebbe servita soltanto a fare rumore durante la corsa. «Andiamo.» sillabò quindi, muovendo lentamente le labbra per farsi capire. Prese per mano il gemello di Soron e lo condusse attraverso i corridoi secondari verso l’uscita, cercando al contempo di essere più veloce e più silenziosa possibile e non riuscendo quindi a fare benne nessuna delle due cose, notoriamente inconciliabili. «Sono sicuro che Sua Maestà spennerà presto l’Aquila e ci darà finalmente il mese di congedo che ha promesso.». «Lo spero, sono arcistufo di dare la caccia ai Ribelli.». «Lo siamo tutti, ma vedrai che quando quegli stupidi randagi lo vedranno penzolare dalla forca cadranno come mosche e noi dovremo solo raccogliere i loro cadaveri.». Hyari si irrigidì e quasi stritolò il braccio di Fion, che stava iniziando a capire quanto grande fosse il guaio in cui si sera cacciato. Il Mezzelfo guardò interrogativo la ragazza per un istante, poi capì. «Sei una Ribelle?» chiese, muovendo lentamente le labbra perché potesse leggerle, ma senza emettere alcun suono. Lei annuì e lo fece appiattire tra le ombre, plasmandole freneticamente con le mani per trasformarle in una sorta di telo che coprisse entrambi alla meglio. «Credi che Sua Maestà ci darà un po’ d’oro, visto che siamo stati noi ad arrestarlo?» chiese in quel momento il secondo soldato. «In teoria è stato Rilo ad arrestarlo, ma la verità è che l’oro finisce sempre e solo nelle tasche del Capitano.» rispose freddamente l’altro, non senza una certa asprezza. Il secondo soldato sbuffò e definì il Capitano con un epiteto decisamente calzante, ma che avrebbe fatto arrossire ascoltatori meno innocenti di quelli nascosti nell’ombra. L’altro sorrise e concordò vivacemente con il compare, battendogli la destra sulla spalla e ripetendo più volte «Non avrei saputo dirlo meglio.». Hyari fremette, contando i passi che separavano il chiassoso duo dal nascondiglio di fortuna e non appena furono abbastanza lontani lo smantellò in pochi gesti precisi - attraversare un’ombra plasmata con la magia poteva essere un’esperienza micidiale - e trascinò Fion verso l’uscita più vicina.
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Soron fremeva, nascosto tra le ombre del vicolo accanto alla caserma, oppresso dall’attesa che si trascinava da un secondo all’altro come se fosse stata zoppa e dalla cacofonia di odori che gli faceva rimpiangere di avere un olfatto tanto sviluppato. “Ma perché ci mettono tanto?” si chiese, serrando i pugni per non mettersi a passeggiare avanti e indietro come una tigre in gabbia: aveva un tremendo presentimento che gli annodava lo stomaco, ma non aveva formulare apertamente quel pensiero, come se questo servisse a esorcizzare il malocchio, il destino o quello che era. La campana della caserma suonò l’allarme e fu il panico. Soron si lasciò sfuggire un’imprecazione che solo qualche anno prima lo avrebbe fatto arrossire e senza esitare sguainò la spada, fece saltare la serratura e si lanciò all’interno per soccorre i due fuggiaschi, affidandosi fiduciosamente all’istinto per trovarli in quel dedalo di corridoi maledetti.
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«Indietro!» urlò Hyari, creando un anello di fuoco intorno a sé e a Fion per guadagnare un po’ di tempo e mettere in piedi una strategia. «Indietro!» ripeté, vomitando addosso a quel manipolo di zotici tutti gli epiteti che come soldato aveva pronunciato contro Fion ed altri ancora. «Una signorina come te non dovrebbe dire certe cose.» la rimproverò ironicamente un soldato, estraendo un coltello da lancio dalla cinta di cuoio che portava intorno al torace. «E un gorilla senza cervello come te non dovrebbe capire cosa ha detto.» gli fece il verso Soron, trapassandogli il cuore con la spada ed estraendola rapidamente per avventarsi sugli altri soldati, che serrarono malamente i ranghi, terrorizzati dalla caduta del loro capitano. Hyari sorrise istintivamente, ma il suo lato razionale le ricordò che avrebbe dovuto essere arrabbiata con lui per la sua imprudenza e guardò l’Aquila come se dovesse sole decidere con quale ricetta cuocerla dopo averla accuratamente spennata. Soron non ebbe bisogno di vedere quell’occhiataccia per capire cosa lo aspettava, ma nei dieci secondi che servirono a Hyari per spegnere il fuoco si sentì come se la maga lo stesse pugnalando alla schiena con lo sguardo. Fion sogghignò e non appena le fiamme si dissolsero sguainò la spada che la maga gli aveva ceduto e si lanciò verso una guardia che stava per staccare la testa di Soron colpendolo alle spalle con un tondo maldestro, ma con ottime possibilità di riuscita. Il soldato cadde a terra con un gemito, ma il Mezzo non ebbe il tempo di esultare che già altri cinque presero il suo posto. «Non possiamo sconfiggerli tutti.» ammise Hyari, arretrando e piegandosi per schivare un coltello da lancio. «Sono troppi.» aggiunse, schiaffeggiando il suo avversario con una frusta di fuoco nonostante la stanchezza: la voglia di vivere le dava la forza di restare in piedi. «Lo so.» le rispose Soron, decapitando senza pietà un altro gorilla. «Che facciamo?» domandò Fion ai due ribelli, dimentico ormai dell’odio per il fratello, che combatteva al suo fianco come un tempo. Avanzò per affondare la lama in una corazza, ma il suo avversario riuscì a fermare la lama e poco mancò che un suo compare gli tranciasse di netto il braccio. «Fuggiamo.» sussurrò Soron, col fiato corto, trapassando senza esitare il collo dell’attentatore. Fion sorrise istintivamente, ma non perse tempo a ringraziare. Si limitò ad annuire e a tentare di arretrare, lentamente, per non rischiare di lasciare ai nemici un varco nel quale infilarsi per prenderli alle spalle. Hyari annuì a propria volta e serrò la mascella, richiamando a sé le ultime forze a disposizione: poteva procurare quel minimo di tempo indispensabile alla fuga ed era suo dovere riuscire. Deglutì, sussurrando parole incomprensibili e plasmando rapidamente il fuoco in modo che formasse un muro di fronte a sé e ai due Mezzi, alimentandolo con un’ampolla di liquido che aveva portato in previsione di una simile evenienza. Soron sorrise, e vedendola vacillare rinfoderò la spada e la prese in braccio, correndo senza esitare verso la salvezza, mentre le urla di frustrazione dei soldati li inseguivano nei vicoli, pensando solo a ciò che avrebbe voluto fare una volta fuori da quell’inferno e non alla stanchezza che gli mordeva i muscoli. «Resisti, fratello.» lo incitò inaspettatamente Fion, mosso dai suoi stessi pensieri e seguendolo senza esitare, ma con la spada ancora sguainata: sentiva distintamente la corsa disordinata dei loro inseguitori e non aveva intenzione di morire a pochi passi dalla salvezza, non ora che aveva giurato di tornare a casa a qualunque costo. Soron annuì e continuò a correre nonostante il tremito delle gambe. «Eccoli!» urlò una guardia alle loro spalle, sollevando una balestra e puntandola verso il cuore di Fion. Per fortuna del Mezzo, la sua mira non era così buona e infatti la freccia mancò abbondantemente il bersaglio, ma riuscì ugualmente ad infilarsi nel suo braccio destro di Soron. Fion se ne accorse, e per la prima volta avvertì dentro di sé uno strano contrasto: una parte di lui gioì per la sofferenza del fratello e gli fece venire voglia di sorridere, ma un’altra provò dispiacere, rabbia e desiderio di fermarsi per affrontare e punire il soldato, ma il raziocinio - supportato dall’istinto di sopravvivenza - mise a tacere entrambe le parti e gli intimò di continuare a correre. Il soldato sbottò e ricaricò la balestra. «Non mi sfuggirete!» urlò, puntando al polpaccio di Soron, e stavolta ebbe più fortuna: riuscì a colpirla di striscio e a strappargli un gemito. Fion quasi ruggì, stritolando l’elsa della spada, e di nuovo fu il desiderio di tornare a casa a impedirgli di voltarsi per gettarsi contro l’uomo che stava tentando di ucciderli. «Manca... poco.» ansimò Soron, intravedendo l’uscita e rallentando, ormai allo stremo delle forze. «Sei sempre stato un debole.» sbottò Fion, artigliandogli la giubba e quasi trascinandolo verso l’uscita: voleva disperatamente salvarsi, e ci sarebbe riuscito a qualunque costo. Un’altra freccia sibilò verso di loro e stavolta riuscì a infilarsi nel fianco destro di Fion - evidentemente il soldato con la balestra aveva capito come colpirli: mirando altrove. “Che la terra si apra e ti inghiotta.” gli augurò, ormai senza fiato, mentre l’oscurità del vicolo si spalancava benigna di fronte a loro. I due Mezzi respirarono a pieni polmoni l’aria frizzante dell’alba che diventa mattino e quando la nebbia li avvolse ringraziarono mentalmente Shaluriel: nessun umano avrebbe mai potuto seguirli, se non li avesse sentiti. Ma era ancora troppo presto per festeggiare: dovevano mettere almeno tre o quattro vicoli tra loro e quei gorilla se volevano che la nebbia servisse a qualcosa e quindi ripresero a correre, cambiando più volte direzione per far perdere le proprie tracce, ma sempre puntando ad uscire dalla città. In lontananza sentivano le imprecazioni dei soldati che tornavano indietro e la voglia di deriderli era fortissima in entrambi, ma solo un folle suicida avrebbe fatto una cosa del genere, e loro non lo erano. Soron respirò a pieni polmoni, appoggiandosi per un momento al muro sudicio di una casa ed anche il tanfo dei canali di scolo non gli parve così male in confronto all’odore del sangue che aveva dovuto spargere - nonostante sapesse che era necessario per liberare Lysim dal giogo del Tiranno, uccidere non gli piaceva e l’idea che ormai gli risultasse così facile, così naturale lo terrorizzava a morte. Ammetterlo almeno con se stesso lo aiutava a non sentirsi del tutto un mostro. Sospirò, stringendo a sé il corpo caldo della maga priva di sensi e fece cenno col capo al fratello di seguirlo. Una parte di lui - quella razionale - gli diceva di bendarlo, ma l’affetto che si era finalmente risvegliato in lui oppose una ferma resistenza e gli impedì di compiere una tale dimostrazione di sfiducia. “Vedrai che Hyari mi darà ragione.” sussurrò perfidamente la Ragione nel suo orecchio, ma il Mezzo scosse lievemente la testa e si inoltrò tra i vicoli e gli alberi che con essi si mischiavano senza esitare. Fion rinfoderò la spada, strappò bruscamente la freccia dal fianco e lo seguì inespressivo, medicandosi alla buona e di nascosto, come se si vergognasse di essere stato ferito per aiutare il fratello. Una parte abbondante di lui gli diceva che era una cattiva - no, una pessima - idea e che questa scelta lo avrebbe trascinato in un mare di guai; gli ricordò che di problemi lui ne aveva più che a sufficienza, ma per una volta il Mezzo scelse di ignorare la vocina che gli aveva salvato la vita innumerevoli volte e scoprire per scoprire in che razza di guaio si era cacciato il gemello: in fondo glielo doveva, visto che era venuto a salvarlo, e poi magari poteva essere il modo per tornare a casa, finalmente.
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