Gwenŷn

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§*Fayr*§
icon12  view post Posted on 1/2/2012, 00:38




Prologo ~ L’Aquila d’Oro e il Falco d’Argento

I due rapaci si affrontavano senza risparmiarsi, stridendo e attaccando come se non provassero dolore, desiderosi soltanto di provocare all'avversario più ferite possibili.
L'Aquila d'Oro stridette, calando in picchiata sul Falco d'Argento, che si scansò con un potente colpo d'ali ed emise un verso di scherno e senza esitare si avventò con gli artigli sull'occhio sinistro dell'Aquila d'Oro, sfregiandola e macchiando le piume d'argento del sangue scarlatto della sua avversaria.
-Fermatevi!- urlò per l'ennesima volta una voce femminile impastata di pianto dalla radura sottostante. -Fermatevi!- ripeté, coprendo gli occhi grigi con le mani. Una lacrima di cristallo scivolò tra le sue ciglia sottili e sfuggì alle dita affusolate, rotolando silenziosa lungo la guancia ambrata.
L'Aquila stridette, rispondendo all'attacco con furia inaspettata, beccando violentemente ogni parte del Falco che riuscisse a raggiungere. Batté energicamente le ali per schivare il becco nero del Falco e tentò di colpirlo con gli artigli bronzei, esattamente come aveva fatto lui poco prima.
-NO!- urlò Ilwen, terrorizzata, tendendo le mani verso di loro come se volesse separare i due contendenti, che si voltarono contemporaneamente contro di lei, stridettero e tornarono a fronteggiarsi con ancora più rabbia e violenza di prima. La Silvana abbassò gli occhi, sentendo in bocca l'amaro sapore della sconfitta e del rimorso. Stille salate fuggirono dalle ciglia lunghe e scure, mentre il vento la frustava violento, come se volesse impedirle di mettersi in mezzo.
Un lampo balenò nel cielo, illuminandolo a giorno un momento prima che un tuono lo facesse tremare.
Il Falco attaccò fulmineo, approfittando del momentaneo accecamento dell'Aquila, e le squarciò il petto con gli artigli d'ebano, che si tinsero di sangue e lo fecero gocciolare ovunque.
Una goccia cadde persino sulla guancia di Ilwen, che la pulì con dita tremanti. -Dea- mormorò, congiungendo timidamente le mani -Dolce Madre, Saggia Signora, ti prego... ti imploro... salvali... hanno sbagliato, lo so, ma... ma Tu, nella Tua immensa Bontà e Saggezza... perdonali, Ti prego... perdonali...- pregò, trattenendo a fatica le lacrime, mentre i ricordi le invadevano la mente.

*



Una dolce brezza primaverile spazza dolcemente la radura, facendo inchinare i fiori di campo che da pochi giorni avevano iniziato a sbocciare da pochi giorni.
Due giovani Mezzelfi si stanno esercitando nella scherma, prendendosi bonariamente in giro come al solito. Sono completamente concentrati sulla lotta e non vedono altro che le lame argentee che si incontrano a mezz'aria, intrecciandosi, scontrandosi e respingendosi tra suoni metallici e riflessi argentei.
Ilwen li osserva, avvicinandosi in silenzio alla radura e fermandosi a pochi passi da essa per non spezzare la loro concentrazione.
-Sei troppo lento, fratellino!- esclama ridendo Soron, arretrando per evitare il filo della lama che punta al suo collo e sollevando la propria spada per parare il colpo del fratello, che tenta di bloccarla con la propria. Il Mezzelfo dagli occhi ambrati, però, non si fa cogliere impreparato e facendo ruotare la spada intorno a quella di Fion la libera dalla trappola, eseguendo un affondo.
-E tu troppo impulsivo!- risponde Fion, facendo un passo a destra e ruotando il busto per evitare la lama, che passa ad appena un palmo dal suo torace. Sorride quasi feroce, deciso a sconfiggere il fratello e tenta un colpo dall'alto, a cui Soron risponde prontamente, ruotando il busto e sollevando la lama per intercettare il suo attacco. Fion spinge la propria arma contro quelle di Soron, nel tentativo di sfondare la sua difesa, ed altrettanto fa Soron, che, impugnando l'elsa con entrambe le mani, riesce a respingerlo ed arretra per riguadagnare la distanza di sicurezza. -Saggia idea- commenta sogghignando il Mezzo dagli occhi azzurri, tornando all'attacco con un potente fendente diretto contro la spalla sinistra di Soron, che para il colpo ponendo la lama in orizzontale e rinuncia così all'occasione di colpire il petto indifeso di Fion. -L'ho sempre detto che tu sei troppo buono per fare il soldato- commenta lui, scuotendo la testa e facendo ondeggiare al vento i lunghi capelli castani.
Soron sorride, portando la sinistra sull'elsa per dare vigore alla parata e respingendolo nuovamente indietro. -Dici?- chiede, riassumendo la posizione iniziale e tentando un affondo improvviso diretto al petto dell'avversario.
-Assolutamente- replica quello, spostandosi a destra e tentando di ricambiare il colpo con una velocità e una grazia quasi felina.
Soron solleva istintivamente l'arma per parare il colpo e contemporaneamente arretra, respingendolo indietro per poi tentare un fendente laterale contro la spalla sinistra di Fion.
Lui lo lascia fare, arretrando e abbassando la spada per bloccare il colpo.
Soron - stupito, ma deciso a non perdere l'occasione - parte all'attacco, eseguendo una serie di rapide mosse che costringono Fion in difesa.
Il fratello minore lo asseconda, arretrando di tanto in tanto e parando senza troppa difficoltà gli attacchi fulminei e impulsivi di Soron. -Hai finito?- chiede sorridendo sornione e appoggiandosi ad un tronco con la mano libera per fare lo sgambetto al fratello.
-Imbroglione- commenta, avvertendo lo scontro tra le spalle ed il prato e lasciando istintivamente andare la propria arma.
Fion sorride tranquillo, puntandogli la lama alla gola. -Tutto è lecito in guerra e in amore- cita, reinserendo la spada nel fodero e tendendo la mano al fratello.


*



“Stavolta non gli tenderà la mano.” pensò amaramente Ilwen, guardando i due rapaci che combattevano tra loro senza risparmiare i colpi.
Il ricordo, però, non sembrava intenzionato a lasciala andare.

*



Ilwen sospira, scuotendo lentamente la testa. Soron è veramente troppo buono per fare il soldato: si lascia sempre ingannare dalle strategie di Fion! pensa, sorridendo: l'idea non le dispiace troppo, visto che - come sua madre e tutti i Muindyr e le Muinthyl che vivono in quel villaggio - disapprova la guerra e le sue conseguenze. -E' ora di mangiare!- esclama, annunciandosi, mentre i due si sforzano si riassumere un aspetto decoroso. -Vi ho visti in condizioni decisamente peggiori- ricorda loro, sorridendo ed entrando finalmente nella radura con un cestino dal profumo invitante tra le mani.
I due annuiscono, e una minacciosa luce scarlatta balena per un istante nei loro occhi.
Ilwen batte le palpebre, confusa, ma quando torna ad osservarli la luce è scomparsa e la Silvana, credendo di essersi sbagliata, non vi dà più peso.
-Evviva, si mangia!- esclamano i due Mezzi, allegri come al solito.


*



“Se solo avessi parlato di quella luce a nostra madre...” pensò la Figlia delle Stelle, sentendosi colpevole e alzando a fatica lo sguardo verso i due rapaci che cercavano in tutti i modi di uccidersi: nei loro movimenti non c'era più grazia, né l'eco dei loro soliti stili di lotta, solo l'istinto omicida nella sua essenza più cruda. -Madre Saggia e Buona, ti prego, ti imploro da più profondo della mia Anima... fermali...- riprese a pregare, disperata.
E Shaluriel, commossa dalle invocazioni della dolce Ilwen, spazzò via le nuvole con un solo gesto, separando i due contendenti che stridevano, completamente accecati dall'odio reciproco. -Figlia- la chiamò, sorridendole dolce, ma con voce imperiosa. -Poiché me lo chiedi con tanto ardore, e poiché vedo il tuo cuore puro, restituirò loro l'aspetto originario... ma- aggiunse, vedendo il sorriso estatico e grato di lei -non potranno tornare nell'Oiwenya Taure finché non avranno ritrovato loro stessi e si saranno liberati dall'Odio che avvelena i loro cuori...- concluse, severa e inflessibile.
Ilwen avvertì una fitta di dispiacere per la loro partenza, ma seppe in fondo al cuore che essa era giusta e annuì in silenzio. -Eglerio, Madre- sussurrò, asciugandosi gli occhi e sorridendo.
Shaluriel sorrise, orgogliosa di quella sua figlia e annuì a propria volta. -Così sia- disse, semplicemente, battendo le mani.
L'Aquila d'Oro e il Falco d'Argento volarono fino ai confini, obbedendo all'ordine silente della Dea e appena i loro artigli toccarono terra una luce bianca li avvolse restituendo loro le fattezze Mezzelfiche, intonse come se lo scontro non fosse mai avvenuto.
-Andate- ordinò la voce della Dea nelle loro menti -Che vi riunisca ciò che vi ha diviso, se volete tornare tra queste fronde- aggiunse, prima di lasciarli soli con loro stessi.
I due annuirono a testa bassa e si incamminarono lontano da quella che per circa un secolo e mezzo era stata la loro casa, cercando di non pensare al dolore che stavano dando alla loro madre... o alle lacrime che avevano visto sul volto dell'amata sorella.
 
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§*Fayr*§
view post Posted on 1/2/2012, 00:55




Capitolo I ~ Crescere

Soron guardò il boccale di birra come se fosse avvelenata e sospirò: dopo la sua ultima avventura non avrebbe più potuto ordinare vino per un pezzo, a meno di non avere fretta di tornare in galera. “Chissà dov’è Fion” pensò, portando il boccale alle labbra e ingoiando un sorso senza respirare: era decisamente disgustosa (come ogni bevanda diversa dal vino dell’Oiwenya Taure), ma qualcosa doveva ordinare per stare seduto a quel tavolo e quella era stata la prima cosa che gli era venuta in mente. Arricciò le labbra e si passò una mano tra il capelli, adocchiando la porta nella speranza che il suo contatto si facesse vivo. Niente. “Ma dove si è cacciato?!” si chiese il Mezzelfo, preoccupato, facendo scivolare le dita tra le lunghe ciocche, stando ben attento a non scoprire le puntute. “Che bella giornata” pensò, ingoiando l’ultimo sorso e prendendo in considerazione l’idea di ordinare qualcosa di più forte per annegare l’amarezza nell’alcol, ma i pensieri tornarono su Fion: non lo vedeva da ben undici yéni e cominciava a sentire la sua mancanza. Dopo che Shaluriel li aveva allontanati dall’Oiwenya Taure si erano messi in viaggio insieme e avevano raggiunto i quattro angoli di Jallarhyn, ma l’odio permaneva tra loro come un muro insuperabile, un fastidioso terzo incomodo in un rapporto altrimenti perfetto. Avevano resistito appena un anno insieme, poi Fion aveva trovato l’unica soluzione possibile: dividersi. Se lo ricordava come fosse stato il giorno prima.

*



Il Sole tramonta pigro all’orizzonte, e i due fratelli lo guardano in silenzio mentre affonda tra i flutti come un’enorme perla scarlatta. Da quando è iniziato il loro viaggio, questo è forse il primo momento di pace che condividono.
-Così non va- osserva laconico Soron, seduto su uno scoglio. I crini castani, ormai lunghi, ondeggiano pigri oltre le sue spalle, mossi dalla lieve brezza salmastra.
Fion annuisce. -Dobbiamo separarci...- aggiunge, pensieroso, raccogliendo un pugno di sabbia e facendosela scorrere tra le dita.
Soron sussulta: nonostante la rivalità, l’idea di separarsi dal gemello non gli ha sfiorato la mente nemmeno per un istante.
-Non c’è altra soluzione- continua Fion, posando le palme sulla rena alle sue spalle e puntellandosi su di esse per guardare il cielo che scurisce. -Finché restiamo insieme non cambierà niente... e nessuno dei due potrà mai tornare a casa- conclude, respirando profondamente e silenziosamente: l’idea non entusiasma nemmeno lui, ma ci pensa da un po’ e - ormai ne era certo - questa è la migliore alternativa che hanno, se non l’unica.
-Sarà...- commenta scettico Soron, alzandosi in piedi e stiracchiandosi come un gatto.
-Dobbiamo fare esperienze diverse, o non risolveremo nulla- insiste Fion, alzandosi a propria volta e pulendosi le mani sui calzoni.
-Puoi anche dirlo apertamente che sei stanco della mia compagnia, fratello- ribatte aspramente Soron, pentendosene subito dopo, ma ormai il danno è fatto.
-Egocentrico- lo accusa infatti Fion, sbuffando, e senza preoccuparsi di essere sentito.
“Ecco, lo sapevo...” pensa Soron, prendendo da terra la sacca con le proprie cose e incamminandosi senza una meta precisa.
“Non impari mai...” commenta una vocina nella sua mente, in tono più dispiaciuto che accusatorio.
“Così pare...” ammette il Mezzelfo, continuando a camminare senza voltarsi indietro.
Fion sbuffa, offeso, e prima di ripensarci scuote la testa e si muove nella direzione opposta, deciso a farsi guidare dal vento e dalle Stelle verso la prossima meta, qualunque essa sia.


*



Da allora, nonostante non avesse notizie del fratello da quel giorno alla spiaggia (qualche volta si incrociarono per strada, ma non si scambiarono più di un cenno distratto e quasi involontario del capo), si sentiva attraversato da un profondo, feroce istinto competitivo; e non importava che fosse consapevoli della sua assurdità: lo possedeva comunque, trascinandolo verso le imprese più assurde e spericolate, facendogli dimenticare il buon senso e - spesso - l’istinto di sopravvivenza, come se li avesse chiusi in un cassetto e avesse gettato via la chiave. E anche se all’inizio la cosa non era sembrata grave, con il passare del tempo la cosa stava raggiungendo livelli allarmanti: si gettava in imprese “eroiche” sempre più audaci e spericolate, tentando di conciliare il suo istinto di aiutare gli altri con l’irrefrenabile desiderio di mettersi alla prova e dimostrare il proprio valore. Ci aveva quasi rimesso l’osso del collo inutilmente per innumerevoli volte, finché qualcuno - Shaluriel stessa, il capriccioso Destino o l’inconsapevole Fortuna? Ancora se lo chiedeva, a volte - non lo aveva persuaso ad incamminarsi verso Lysim, dove tutto era irrimediabilmente cambiato.
Un sorriso sarcastico gli comparvi sul viso mentre si voltava verso il bancone per chiamare l’oste: ormai era chiaro che il suo contatto non sarebbe venuto e lui aveva decisamente bisogno di qualcosa di forte.
La porta si aprì cigolando e l’aroma intenso, inconfondibile, che gli riempì le narici gli fece passare ogni desiderio di alcol, annodandogli lo stomaco.
 
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§*Fayr*§
view post Posted on 1/2/2012, 01:20




Capitolo II ~ Pulcino

Fion camminava pensieroso per le vie della nuova città. Era appena arrivato, ma sentiva una stana inquietudine alla bocca dello stomaco, che gli faceva formicolare la nuca e la schiena, e non riusciva spiegarsela: aveva la sensazione che stesse per accadere qualcosa di terribile, ma non era nitida come quando il suo istinto lo tirava fuori da una missione suicida: era annebbiata, riempiva l’orizzonte dei suoi pensieri, ma appena cercava di avvicinarla e metterla a fuoco gli sfuggiva come fumo. Sembrava volergli indicare un pericolo ipotetico, troppo lontano per essere distinto. Si grattò istintivamente la nuca, cercando di scacciare la fastidiosa sensazione, e si aggiustò i capelli corti per accertarsi che coprissero la punta delle orecchie: non sempre i Mezzelfi erano i benvenuti, ormai lo aveva imparato, quindi meglio evitare di correre rischi inutili. Negli anni passati era andato a caccia di tesori sempre più improbabili, attratto più dalle sfide da superare per conquistarli che dal loro effettivo valore... e più di una volta si era trovato a un passo dalla morte per un cosiddetto “tesoro” che non gli aveva riempito le tasche, ma adesso basta: era stanco di avventure improbabili e poi... era difficile da spiegare, ma si sentiva come se una strana forza guidasse i suoi passi verso quell’incantevole borgo affacciato sul mare: che Shaluriel avesse deciso di dargli una spintarella nella decisone giusta? Certo, sapeva che probabilmente la Dea non l’avrebbe mai fatto (anche perché non sarebbe stato giusto nei confronti di Soron), ma ad ogni passo sentiva crescere dentro un nuovo ottimismo. Arricciò le labbra in un sorriso e si calò meglio il cappuccio sulla testa per nascondere il viso.
Il vento fischiò, facendo ondeggiare l’insegna consunta di una locanda, che cigolò tornando al proprio posto.
Il Mezzo sorrise, stringendosi meglio nel mantello: magari un pasto caldo lo avrebbe liberato dal fastidioso formicolio. Incassò il capo nelle spalle e puntò deciso verso l’uscio, spingendolo senza sforzo verso l’interno.
Una campanella arrugginita, ma miracolosamente funzionante annunciò il suo ingresso con un rumore metallico che infastidì l’udito fine del Mezzo.
La taverna era piccola, ma meno squallida di quanto l'insegna sgangherata aveva fatto temere: un timido fuoco scoppiettava nel camino, illuminando la stanza e combattendo con il freddo che filtrava dalle fessure nel muro e nella porta, qualche trofeo di caccia e qualche spada arrugginita tentavano di abbellire le pareti altrimenti vuote e le bottiglie di liquore con le etichette scolorite soffocavano le mensole dietro il bancone, che sembravano minacciare di cadere non appena qualcuno vi avesse respirato sopra.
L'oste rivolse al Mezzo incappucciato la sua occhiata più truce e tornò a pulire la macchia di sugo sul bancone come se non l'avesse visto.
L'aroma intenso del liquore saliva dai bicchieri degli avventori e si mescolava al profumo del pane caldo, della carne e della zuppa della casa, stuzzicando l'olfatto di Fion e facendo gorgogliare il suo stomaco vuoto.
Fion sorrise sornione sotto il cappuccio e si avvicinò al bancone sfoggiando un sorriso indifferente. -Zuppa della casa, pane e un bicchiere di vino- ordinò, sedendosi, ma senza scoprirsi il volto.
L'oste annuì inespressivo e si voltò per scegliere il vino più scadente a sua disposizione: non avrebbe mai e poi mai sprecato la riserva dei clienti fissi per un forestiero. -Ecco a te- disse, riempiendo un bicchiere scheggiato e posandolo di fronte al Mezzo, che lo prese e se lo portò alle labbra con una smorfia disgustata: più che vino, sembrava sciacquatura di piatti. Ma l'oste, scaltro, non gli diede il tempo di lamentarsi e si eclissò in cucina per riempire una ciotola di zuppa e recuperare un pezzo di pane dalla dispensa.
“Sempre la stessa storia...” pensò il Mezzo, sospirando e bevendo di malavoglia un sorso di vino “Non mi ricordo l’ultima volta che ho bevuto del vino vero... questo di sicuro non lo è. Non sembra nemmeno che l’abbiano fatto con l’uva...” pensò, con il morale sotto le suole: l’Oiwenya Taure gli mancava terribilmente, ma sapeva - o meglio temeva - che se avesse osato provare a tornarci, Shaluriel lo avrebbe cacciato di nuovo, magari per sempre. Quell’idea lo faceva impazzire e lo terrorizzava: aveva un disperato bisogno di tornare a casa, di rivedere sua madre, suo padre, i suoi amici, ma soprattutto, sentiva il bisogno di riabbracciare sua sorella. Voleva tornare da lei, abbracciarla e dirle ciò che si era tenuto dentro per troppo tempo, doveva spiegarle, scusarsi per il dolore che le provocava. Doveva ottenere il suo perdono. Ma non poteva, lo sapeva: l’odio per Soron non si era affatto affievolito, nonostante non lo vedesse da tempo, e lo sapeva. Gli bastava pensare al fratello per sentire il sangue che ribolliva nelle vene e un irrefrenabile desiderio di strangolare lo assaliva: era solo colpa di Soron se era costretto a stare lontano da Ilwen, solo sua! Se Soron non avesse tentato di prendersi qualcosa che non gli spettava, l’unica che non avrebbe mai dovuto volere, perché era sua, soltanto sua... se non fosse stato per lui, non sarebbe mai successo niente. “E’ solo colpa sua...” pensò con rabbia, ingoiando l’ultimo sorso di vino e cercando con lo sguardo l’oste. -Questa sottospecie di brodaglia è tutto ciò che mi puoi offrire?- gli chiese con astio, accennando al bicchiere mezzo vuoto come se fosse un cadavere.
L'umano fece finta di pensarci per qualche istante e sorrise sornione. -Dipende...- rispose, sfregando tra loro l'indce, il pollice e il medio in una tanto tacita e chiara richiesta.
Fion sbuffò e mise sul banco una moneta d'argento puro. -Versa- ordinò secco all'umano, che sorrise soddisfatto e agguantò la moneta con una rapidità che la sua mole non avrebbe mai fatto immaginare, prendendo dallo scaffale alle proprie spalle una bottiglia meno impolverata delle altre.
-Ecco a voi, Ser...- disse, posando il bicchiere davanti allo straniero e mordendosi la guancia per non gongolare: chiunque fosse disposto a pagare una moneta d’argento per un bicchiere di vino poteva considerarsi il suo migliore amico, almeno finché non si fosse infilato in qualche impiccio...
-Grazie- borbottò il Mezzo, portandoselo alle labbra con profondo scetticismo, ma quando il liquido scuro gli sfiorò la lingua dovette ricredersi: era davvero buono, il migliore che aveva bevuto da quando aveva lasciato l’Oiwenya Taure senza dubbio - nessun vino avrebbe mai potuto eguagliare quello elfico, certo, ma quello si difendeva bene. Sorrise impercettibilmente, posò il bicchiere e decise di mettere alla prova la zuppa, che se non fece cantare di gioia il suo palato, non lo fece nemmeno piangere. Certo, probabilmente - molto, molto probabilmente, in verità - ciò era dovuto al fatto che non mangiava da due giorni e che quindi ingoiava prima ancora di poter distinguere i sapori, ma...
La porta si aprì di schianto e un drappello di guardie invase il locale come uno sciame di locuste inferocite, strappando violentemente i cappucci dalle teste degli sfortunati avventori.
Fion tentò di nascondere le orecchie con i capelli abbassando la testa sulla ciotola, ma non bastò ad impedire che un soldato con la stazza di un gorilla e l’intelligenza di un orco le scoprisse e quasi lo strangolasse per vedere il suo viso.
-Capitano! Capitano!- starnazzò immediatamente il gorilla, e poco mancò che iniziassea saltare sul posto sbracciandosi come un ossesso per attirare l’attenzione del suo superiore.
-Che c’è, idiota?- abbaiò quello, voltandosi verso di lui e pugnalandolo con lo sguardo. Appena tornati in caserma lo avrebbe spellato vivo per il suo comportamento, decise, e nemmeno il fatto che avesse trovato l’Aquila gli avrebbe fatto cambiare idea.
Fion guardò i due rappresentati della legge con gli occhi sgranati e gli bastò un battito di ciglia per capire che per qualche oscuro motivo ce l’avevano con lui.
Il Capitano puntò deciso verso di lui, estraendo dal borsello che portava alla cinta una strana corda intervallata da nodi che alle estremità terminava con due impugnature di legno. -Tienilo fermo- ordinò al gorilla, che prese saldamente per le spalle lo sfortunato Mezzo e gli incrociò i polsi in modo tale da permettere al Capitano di legarli con quella maledetta corda.
Fion provò a liberarsi, ma al Capitano bastò tirare appena le estremità della corda perché i nodi sfregassero dolorosamente la pelle chiara, costringendolo a mordersi le labbra per reprimere un gemito.
-Le tue scorribande sono finite, Pulcino- sibilò velenosamente il Capitano al suo orecchio, spingendolo verso la porta del locale.
“Eh?!” pensò Fion, confuso: era appena arrivato, non aveva avuto il tempo nemmeno di pensare a infrangere una legge! Poi capì, e fu come se lo avessero preso a schiaffi. Aprì la bocca per spiegare l’errore, ma non riuscì a dire nulla perché il gorilla provvide a imbavagliarlo con lo straccio dell’oste, che intanto si era nascosto in cucina.
La locanda, intanto, era ammutolita e sui volti di tutti i presenti si leggeva il terrore.
Solo un volto era rimasto inespressivo, quello di un giovane dai lunghi capelli dorati, che aveva stritolato il bicchiere di legno fino a farsi sbiancare le nocche per trattenersi dal balzare in piedi per soccorrere lo sfortunato Mezzelfo: se lo avesse fatto, tutto il suo impegno degli ultimi mesi sarebbe andato in fumo, la Resistenza sarebbe caduta e sangue innocente sarebbe stato versato fino alla fine del Tempo. “Il Destino ha un senso dell’umorismo decisamente crudele.” pensò, mordendosi l’interno della guancia per sfogare la rabbia e alzandosi con la grazia fluida e silenziosa di un felino. Pagò e lasciò la locanda senza dire una parola, dopo di che si infilò in un vicolo e divenne ombra tra le ombre.
 
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§*Fayr*§
view post Posted on 20/2/2012, 12:46




Capitolo III ~ Aquila

Il Sole del meriggio accarezzava gentilmente la foresta oltre le mura di Lysim, diffondendo i profumi dell’Estate morente in ogni angolo del Campo.
Soron respirò profondamente quella sinfonia di aromi, facendo scorrere lentamente le dita tra le ciocche bionde che Hyari aveva tinto con la magia per permettergli di sfuggire alle guardie del Tiranno e sospirò, accomodandosi contro il tronco di un grande pino: erano utili, certo, e fino a qualche ora prima le trovava anche belle, ma quando aveva visto le guardie portare via Fion al suo posto si era sentito un traditore e quel semplice travestimento aveva perso tutto il suo fascino. “E’ tutta colpa mia.” pensò, stropicciandosi le palpebre con le dita affusolate: voleva disperatamente salvare suo fratello, ma non riusciva a escogitare un piano che non richiedesse un esercito o il suo martirio - e aveva giurato di non azzardarsi mai più una simile bravata, dopo quella che lo aveva costretto a dire addio ai suoi capelli, se non voleva rinunciare anche al resto. «Rhach!» sbottò, colpendosi il ginocchio sinistro con il pugno per sfogare la rabbia: si sentiva come un topo cieco nella tana di una volpe affamata, e la cosa lo faceva impazzire: le sue proverbiali riserve di calma si erano dissolte insieme alle sue speranze di salvare il gemello. Si alzò di scatto, deciso ad andare in città armato di balestra e di tutte le pozioni fumogene che poteva tenere in tasca, ma dal sentiero uscì l’unica persona che avrebbe potuto fermarlo: Hyari.
La bella maga avanzò a passi felpati verso di lui, sfoggiando un sorriso sornione che al Mezzo parve decisamente sinistro. «Vai da qualche parte, Aquila?» gli chiese, giocherellando con una ciocca scura come l’ebano, e la luce nel suo meraviglioso sguardo di giada confermò i sospetti del Mezzo: in qualche modo, aveva capito tutto - o più probabilmente gli aveva letto nel pensiero - e non gli avrebbe permesso di fare nessuna delle pazzie che gli erano balenate nella mente, a costo di legarlo alla foresta con uno dei suoi incantesimi.
Soron deglutì, imponendosi di mantenere un’aria neutra. «Al campo per l’allenamento» rispose, accennando un sorriso che non avrebbe convinto nemmeno un cieco.
Hyari ricambiò il sorriso come un gatto che gioca con il topo prima di mangiarlo. «Di nuovo?» gli chiese, simulando una sorpresa che assomigliava fin troppo allo scherno.
«Non ho niente di meglio da fare...» mentì Soron, guardando ovunque tranne che verso di lei: sapeva perfettamente che se avesse incrociato anche solo per un attimo quelle due stelle di smeraldo avrebbe vuotato il sacco senza opporre la minima resistenza.
Purtroppo per lui, lo sapeva anche lei, che avanzò lentamente verso di lui senza perdere di vista il suo volto, pronta ad incatenare il suo sguardo e la sua volontà. «Davvero...» commentò, ironica. «Se è così posso trovarti io qualcosa» aggiunse, stuzzicando il labbro inferiore con i denti perlacei con fare pensieroso. «Per esempio, potresti aiutare Malarn con la fucina: sta cercando di creare delle nuove armi, ma ha qualche difficoltà a regolare la temperatura senza smettere di battere il ferro» proseguì, fermandosi appena ad un passo dal Mezzelfo, che non sapeva più dove guardare. «Oppure puoi aiutare Erenil con la dispensa» insistette, sorridendo.
Soron ormai deglutiva sempre più vistosamente, e nel momento in cui si arrischiò ad ammirare il sorriso di lei cadde inevitabilmente vittima del suo sguardo magnetico. “Se almeno potessi dare la colpa ai suoi poteri...” sospirò, incapace ormai di guardare altrove.
«Allora, Soron» riprese la maga, distendendo le labbra in un ghigno che si sforzava di sembrare un sorriso (e agli occhi del Mezzo ci riusciva egregiamente) «dov’è che stavi andando?» chiese di nuovo.
Soron sospirò con aria di resa. «Volevo prendere il necessario per un incursione e andare a salvare Fion» confessò, sorridendo della propria debolezza, della quale in fondo non si dispiaceva più di tanto: finalmente credeva di aver capito cosa intendeva Shaluriel.
Hyari ridacchiò e scosse gentilmente la testa. «Una balestra e qualche pozione fumogena sono “tutto il necessario”, per te?» chiese, inarcando il sopracciglio destro in un’espressione di profondo scetticismo.
«Allora mi leggi davvero nel pensiero!» esclamò Soron, prima di rendersene conto.
Hyari scoppiò definitivamente a ridere. «Solo quando seve» rispose, facendo respiri profondi per riacquistare il controllo di sé.
Soron stirò le labbra in un sorriso poco convinto: ciò che riteneva di dover fare per salvare Fion non riguardavano null’altro che lui e suo fratello. «E perché hai pensato che fosse necessario?» le chiese, sforzandosi di guardare altrove.
Hyari sorrise scettica. «Evidentemente non ti sei reso conto dell’espressione che avevi quando sei rientrato: avevi - ed hai - lo stesso sguardo dell’ultima bravata. Devo ricordarti cosa hai promesso?» concluse, sforzandosi di rimanere calma: non gli aveva salvato la vita due volte per vederlo morire alla terza, e soprattutto non adesso!
Soron sbuffò. «Certo che me lo ricordo» rispose, scontento: se non fosse stato per la promessa, non avrebbe perso nemmeno un secondo e sarebbe corso a salvare Fion.
Hyari sorrise dolcemente al Mezzelfo e gli prese delicatamente le mani tra le proprie. «Non ho detto che devi abbandonare tuo fratello» sussurrò, sfiorandogli il dorso delle mani con i pollici senza smettere di sorridere «solo che devi trovare un piano migliore».
Soron annuì e ricambiò il sorriso, rincuorato. «Hai qualche suggerimento?» chiese, e quando lei ritirò la destra per portarla ad intrecciarsi con le ciocche scure sobbalzò.
«Più o meno...» rispose lei, con una strana luce nello sguardo, che catturò il suo interesse e non mancò di fargli formicolare la nuca.
«E sarebbe?» chiese, deglutendo vistosamente: da un lato temeva il piano di Hyari, ma dall’altro sperava con tutto se stesso che gli permettesse di salvare Fion.
Lei sorrise tranquilla e ritrasse anche la sinistra per legare la chioma con un nastro dello stesso colore dei suoi occhi. «Tu resti al campo con gli altri, mentre io mi intrufolo nella prigione» rispose, sorridendo tranquilla, come se avesse detto che andava a raccogliere bacche giù al fiume.
Soron scosse la testa. Lo sapeva che lei gli avrebbe proposto qualcosa si assolutamente inaccettabile come quello, ma non si sarebbe fatto fermare dai suoi occhi di giada nemmeno a costo della propria vita: avrebbe puntato i piedi e le avrebbe impedito di esporsi per lui a quel modo. Assolutamente. «Non sei abbastanza silenziosa» obiettò, aspro, alzando gli occhi verso uno squarcio di cielo che si intravedeva tra i rami dietro di lei.
«Posso usare la magia per risolvere il problema» rispose caparbiamente lei, ma sempre mantenendo quel tono serafico che lo faceva cedere sempre.
«Non conosci mio fratello» insistette Soron, cercando disperatamente qualcosa a cui Hyari non potesse ribattere.
«E’ il tuo gemello» gli ricordò pazientemente lei.
Soron si morse la lingua per non sbottare. «Non sai dove l’hanno portato» tentò ancora, sudando freddo.
Hyari sbuffò. «Ti risponderei neanche tu, ma si dà il caso che io sappia dove lo tengono» replicò, lasciandosi sfuggire una punta di acidità: non gli avrebbe mai e poi mai permesso di rischiare tanto in una missione che definire suicida era un eufemismo.
«Co... cosa?!» balbettò il Mezzelfo, senza parole, guardandola come se le fosse cresciuto un terzo occhio in mezzo alla fronte.
«So dove lo hanno portato» scandì lentamente la maga, cercando il suo sguardo per dimostrargli che non stava mentendo.
«Perfetto! Dimmelo, così vado e torno in men che non si dica!» esclamò Soron, pur conoscendo perfettamente la risposta.
«Assolutamente no» rispose infatti lei, con calma marmorea. «Fidati di me: ti prometto che te lo porterò tutto intero prima che tu abbia contato tutti gli alberi del bosco» promise, sorridendo.
Soron sentì la propria determinazione scricchiolare e sospirò. «Hyari...» mormorò, prendendole delicatamente la mani tra le proprie come aveva fatto lei poco prima. «Non è che non mi fido di te, anzi: so perfettamente quanto tu sia straordinaria, visto che mi hai tirato fuori di lì già una volta e la seconda mi hai evitato di tornarci, ma...» cominciò, interrompendosi a metà frase: non sapeva più come continuare.
Lei capì, almeno in parte, e scosse la testa per fargli capire che non c’era bisogno di dire altro. «A differenza di te, io posso compiere questa missione senza correre rischi» mentì, continuando a guardare le mani di lui per non rischiare di essere tradita dalla luce nel proprio sguardo: sapeva che probabilmente la sicurezza era stata raddoppiata, se non addirittura triplicata, e visto che ormai il Tiranno sapeva della presenza di una maga tra le file dei ribelli - e aveva avuto tutto il tempo per prendere le dovute contromisure - quella missione era pericolosa tanto per lei quanto per lui.
Soron sbuffò e strinse più forte le mani di lei: anche se non vedeva il suo sguardo, percepiva chiaramente la menzogna nel tremore della sua voce. «Non mentire per favore» le chiese, brusco. «Non sono nato ieri, e nemmeno stupido quanto i gorilla del Tiranno: so che stai mentendo» proseguì, duro: che razza di uomo sarebbe stato se le avesse permesso di rischiare di morire - o peggio - per proteggerlo?
La maga rialzò fieramente lo sguardo e annuì con aria di sfida. «Sai perfettamente che la mia vita non vale un millesimo della tua» disse, decisa, ma non poté impedirsi di rabbrividire: aveva giocato l’ultima carta, la più disperata di tutte, assestandogli un colpo decisamente basso.
«Non è assolutamente vero!» sbottò Soron, incapace di trattenersi oltre. «Ogni vita è importante allo stesso modo» insistette, serrando i pugni per trattenere i fremiti della rabbia, ma non sapendo come continuare. Di nuovo. Non poteva permettersi di farle capire cosa covava dentro di lui... non ancora, almeno.
«Non in questo caso» lo interruppe lei, gelida, per non dargli il tempo di trovare le parole giuste. «Finché il Tiranno avrà uno solo di voi due, cercherà di usarlo come esca per l’altro, ma se riuscisse a catturarvi entrambi non ci penserebbe due volte a farvi tagliare la gola prima che possiate battere le palpebre» continuò, senza guardarlo negli occhi per nascondergli il brivido di terrore che le era corso lungo la schiena a quel pensiero.
Soron serrò la mascella e si sentì improvvisamente piccolo: aveva una maledetta profezia sulle spalle ed eroe era costretto a farsi difendere da una donna! «Sia maledetta quella profezia e chi la pronunciò!» sbottò, mordendosi la lingua per non imprecare (se sua madre avesse sentito cosa aveva imparato negli ultimi anni le sarebbero caduti i capelli per la vergogna) e si voltò verso il pino. «Questa è l’ultima volta che ti metti tra me e il Tiranno» affermò, feroce, pur sapendo che, se avesse voluto, Hyari avrebbe continuato a proteggerlo ad oltranza e lui non avrebbe mai e poi mai potuto impedirglielo: non era nemmeno lontanamente testardo (determinato avrebbe detto lei) quanto quella maga, né aveva la sua capacità di ribattere colpo su colpo senza scomporsi - cosa che sembrava non costarle alcuno sforzo, purtroppo.
«Certo, certo...» rispose ironicamente Hyari, e si avviò verso il proprio rifugio per prendere tutto ciò che poteva tornarle utile nella missione più pericolosa della sua vita.
 
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§*Fayr*§
view post Posted on 18/3/2012, 14:45




Capitolo IV ~ Prigioniero

Il Capitano ordinò ai gorilla di accerchiare ordinatamente lui e Fion, celandoli accuratamente alla vista dei passanti con i propri corpi, per non rischiare che quella maledetta maga lo salvasse come aveva fatto l’ultima volta - se avesse osato riprovarci, le avrebbe segato personalmente le gambe con un coltello arrugginito, ma solo dopo una lenta e accurata tortura.
Le guardie obbedirono senza pensare e scortarono il prigioniero nella cella più lurida e isolata a loro disposizione - e avevano l’imbarazzo della scelta.
«Vedi di stare a cuccia stavolta, Pulcino, o dovremo tagliarti le ali... e non solo» lo sbeffeggiò il Capitano, spingendolo dentro con tanta forza da farlo cadere faccia a terra.
Fion tentò di rispondere per suggerirgli educatamente di tornare a pulire le latrine, ma il bavaglio gli impedì di sfoggiare il suo nuovo vocabolario di insulti, imprecazioni et similia.
Il Capitano, però, intuì ugualmente cosa il Mezzo stava pensando e rise sguaiatamente. «In un’altra vita, magari» rispose, tra una risata e l’altra, chiudendo la porta a tripla mandata e abbandonandolo definitivamente a se stesso.
“Ridi adesso, Capitano, perché quando uscirò di qui...” lo minacciò mentalmente Fion, accatastando torture su torture mentre lottava con la corda che gli segava i polsi come un contorsionista in un campo di ortiche: ogni movimento era una fitta di dolore e una stilettata di rabbia, accompagnata da una pioggia di insulti e minacce per il Capitano. Quando riuscì finalmente a liberarsi si era fatto buio da un pezzo, e se non fosse stato per il suo stomaco - che implorava di riempirsi - non se ne sarebbe accorto. Si alzò barcollando da terra e si lasciò cadere sul pagliericcio puzzolente nell’angolo sotto la finestra, chiudendo gli occhi e coprendoli con il braccio. “Anche questo è colpa tua, fratello...” pensò, furioso: tutto ciò che non andava nella sua vita era colpa di Soron, e la ciliegina sulla torta era che probabilmente sarebbe morto al posto suo molto presto, così sarebbe stato finalmente libero di farsi una nuova vita, tornare nell’Oiwenya Taure, se gli andava, e Shaluriel sola avrebbe potuto dire cos’altro. «Che la terra si apra e ti inghiotta...» gli augurò, scivolando rapidamente in un sonno profondo e senza sogni.

*



Un caparbio raggio di Sole penetrò a forza nella cella umida, destreggiandosi tra le ragnatele che i laboriosi insetti avevano tessuto tra una sbarra e l’altra, solleticando le palpebre di Fion.
Il Mezzelfo tentò di scacciarlo come una mosca fastidiosa e si voltò dall’altra parte: il suo subconscio, a metà strada tra il sonno e la veglia, gli suggeriva che il sonno lo avrebbe aiutato a dimenticare momentaneamente i morsi della fame, visto che comunque non aveva niente di meglio da fare se non aspettare la morte a stomaco vuoto. Si accoccolò meglio su se stesso e involontariamente annuì a quel suggerimento, ma prima che potesse assopirsi nuovamente, una guardia bussò violentemente contro la sua porta, deciso a svegliarlo anche a costo di sfondarla.
«Alzati!» ordinò, sommergendolo di epiteti irripetibili di cui probabilmente non conosceva nemmeno il significato.
Fion si sfregò pigramente il volto con le mani e si alzò in piedi come un burattino mosso da un marionettista maldestro. “E così morì il Falco al posto dell’Aquila.” pensò acidamente, sbadigliando senza rendersene conto.
Il soldato ghignò, facendo scattare la serratura e approfittando della stanchezza del Mezzo gli serrò attorno ai polsi due bracciali di piombo con i bordi uncinati, così che se pure avesse avuto la forza di sollevarli, avrebbe rischiato di morire dissanguato al minimo movimento.
“O da queste parti amano particolarmente fare del male, oppure Soron è il Nemico Pubblico Numero Uno.” considerò Fion, con un sarcasmo decisamente fuori luogo, studiando le pesanti catene che lo legavano alla cinta del soldato. “Se riuscissi ad afferrarle potrei cercare di farlo cadere...” pensò, man mano che la lucidità e l’istinto di sopravvivenza riprendevano la loro sede naturale e scacciavano gli ultimi fumi del sonno dalla sua mente.
«Non ci pensare neanche.» disse improvvisamente il soldato, svoltando a destra e strattonando pericolosamente le catene.
«A che cosa?» chiese Fion, ingoiando un gemito di dolore: gli uncini gli avevano sfregiato dolorosamente la pelle chiara e poco era mancato che due o tre si infilassero nella carne o in una vena, facendo fare le capriole al suo stomaco vuoto.
«A cercare di liberarti.» rispose la guardia, rivelandosi meno stupida di quanto il Mezzo aveva supposto. «L’ultimo che ci ha provato è morto dissanguato a dieci passi dal patibolo: ci sono volute due giorni per pulire tutto il sangue che si è lasciato dietro.» aggiunse, gongolando come un bambino davanti a un vassoio di biscotti.
Fion rabbrividì di disgusto e quando realizzò che anche lui stava per penzolare dalla forca gli venne da vomitare: fino ad allora aveva sempre avuto la possibilità di combattere per restare in vita, ma con quei bracciali mortali ai polsi e nemmeno un’arma tra le mani si sentiva più che altro come un capro espiatorio che si avvia impotente verso l’altare sacrificale. Deglutì, seguendo il soldato nell’ennesima svolta con la rabbia che montava sempre di più ad ogni passo: non era giusto che morisse al posto di Soron, ma soprattutto non era giusto che non potesse rivedere sua sorella prima di morire, che non potesse dirle... e improvvisamente gli venne un’idea: poteva tentare di distrarre il soldato con qualche chiacchiera e farlo rallentare abbastanza da rubargli le chiavi che vedeva penzolare dalla cinta. Qualche uncino gli entrava nella carne? Pazienza, non era certo la prima volta! Se fosse riuscito a fuggire avrebbe potuto comunque medicarsi non appena fuori dalle mura, e che la peste si portasse Soron e tutti i suoi maledetti problemi: sarebbe tornato all’Oiwenya Taure a qualunque costo. «Ehi...» iniziò a dire, alzando lo sguardo verso la nuca del soldato, ma quello non rispose. «Ehi...» tentò di nuovo, ma quello lo ignorò ancora, troppo impegnato a controllare i brividi che lo facevano tremare dalla testa ai piedi per prestare attenzione ai suoi tentativi di fuga. Fion lo guardò preoccupato, non riuscendo a capire cosa stava succedendo: era come se i muscoli sotto la pelle avessero iniziato a sciogliersi e a bollire senza motivo, né scopo, mentre i capelli iniziavano a spuntare dall’elmo, crescendo a un ritmo inaudito.
«Maledizione!» masticò tra i denti la guardia, con una voce ben diversa da quella che lo aveva svegliato, quasi femminile. Si guardò attorno circospetta e decise di fare l’unica cosa possibile. «Corri!» ordinò, cercando di non urlare per non attirare l’attenzione: ci mancava solo quello e poi poteva scavarsi la fossa.
«Cosa?!» chiese Fion, che non ci stava capendo più niente, obbedendo comunque per adattarsi al passo della guardia.
«Dopo» biascicò la “guardia”, infilandosi in un cunicolo laterale: ormai non aveva più senso tentare di tenere in piedi quella mascherata, quindi tanto valeva liberarlo e pregare gli Dei di non incontrare nessuno. Sfogliò freneticamente il mazzo di chiavi e in pochi secondi liberò i polsi del Mezzelfo e sganciò le catene dalla cintola, nascondendole in un angolo buio. Stava per ripetere al Mezzo di correre come il vento, ma una fitta di dolore al torace le tolse il fiato, mentre la muscolatura tozza tornava fin troppo rapidamente ad essere quella di una giovane donna dagli intensi occhi di giada. “Giuro che non userò mai più questo incantesimo.” promise, massaggiandosi il ventre con entrambe le mani per ricacciare indietro il bisogno di vomitare.
Fion, allibito, aprì la bocca per parlare, ma lei glielo impedì coprendola con la destra e scuotendo energicamente il capo. Il Mezzo deglutì e annuì meccanicamente, intuendo distintamente che obbedire a quella misteriosa ragazza era la cosa migliore, se voleva uscire vivo da quella prigione.
Lei gli sorrise rassicurante e ritrasse la mano, dopo di che si tolse l’elmo e ogni parte dell’armatura che le sarebbe servita soltanto a fare rumore durante la corsa. «Andiamo.» sillabò quindi, muovendo lentamente le labbra per farsi capire. Prese per mano il gemello di Soron e lo condusse attraverso i corridoi secondari verso l’uscita, cercando al contempo di essere più veloce e più silenziosa possibile e non riuscendo quindi a fare benne nessuna delle due cose, notoriamente inconciliabili.
«Sono sicuro che Sua Maestà spennerà presto l’Aquila e ci darà finalmente il mese di congedo che ha promesso.».
«Lo spero, sono arcistufo di dare la caccia ai Ribelli.».
«Lo siamo tutti, ma vedrai che quando quegli stupidi randagi lo vedranno penzolare dalla forca cadranno come mosche e noi dovremo solo raccogliere i loro cadaveri.».
Hyari si irrigidì e quasi stritolò il braccio di Fion, che stava iniziando a capire quanto grande fosse il guaio in cui si sera cacciato.
Il Mezzelfo guardò interrogativo la ragazza per un istante, poi capì. «Sei una Ribelle?» chiese, muovendo lentamente le labbra perché potesse leggerle, ma senza emettere alcun suono.
Lei annuì e lo fece appiattire tra le ombre, plasmandole freneticamente con le mani per trasformarle in una sorta di telo che coprisse entrambi alla meglio.
«Credi che Sua Maestà ci darà un po’ d’oro, visto che siamo stati noi ad arrestarlo?» chiese in quel momento il secondo soldato.
«In teoria è stato Rilo ad arrestarlo, ma la verità è che l’oro finisce sempre e solo nelle tasche del Capitano.» rispose freddamente l’altro, non senza una certa asprezza.
Il secondo soldato sbuffò e definì il Capitano con un epiteto decisamente calzante, ma che avrebbe fatto arrossire ascoltatori meno innocenti di quelli nascosti nell’ombra.
L’altro sorrise e concordò vivacemente con il compare, battendogli la destra sulla spalla e ripetendo più volte «Non avrei saputo dirlo meglio.».
Hyari fremette, contando i passi che separavano il chiassoso duo dal nascondiglio di fortuna e non appena furono abbastanza lontani lo smantellò in pochi gesti precisi - attraversare un’ombra plasmata con la magia poteva essere un’esperienza micidiale - e trascinò Fion verso l’uscita più vicina.

*



Soron fremeva, nascosto tra le ombre del vicolo accanto alla caserma, oppresso dall’attesa che si trascinava da un secondo all’altro come se fosse stata zoppa e dalla cacofonia di odori che gli faceva rimpiangere di avere un olfatto tanto sviluppato. “Ma perché ci mettono tanto?” si chiese, serrando i pugni per non mettersi a passeggiare avanti e indietro come una tigre in gabbia: aveva un tremendo presentimento che gli annodava lo stomaco, ma non aveva formulare apertamente quel pensiero, come se questo servisse a esorcizzare il malocchio, il destino o quello che era.
La campana della caserma suonò l’allarme e fu il panico.
Soron si lasciò sfuggire un’imprecazione che solo qualche anno prima lo avrebbe fatto arrossire e senza esitare sguainò la spada, fece saltare la serratura e si lanciò all’interno per soccorre i due fuggiaschi, affidandosi fiduciosamente all’istinto per trovarli in quel dedalo di corridoi maledetti.

*



«Indietro!» urlò Hyari, creando un anello di fuoco intorno a sé e a Fion per guadagnare un po’ di tempo e mettere in piedi una strategia. «Indietro!» ripeté, vomitando addosso a quel manipolo di zotici tutti gli epiteti che come soldato aveva pronunciato contro Fion ed altri ancora.
«Una signorina come te non dovrebbe dire certe cose.» la rimproverò ironicamente un soldato, estraendo un coltello da lancio dalla cinta di cuoio che portava intorno al torace.
«E un gorilla senza cervello come te non dovrebbe capire cosa ha detto.» gli fece il verso Soron, trapassandogli il cuore con la spada ed estraendola rapidamente per avventarsi sugli altri soldati, che serrarono malamente i ranghi, terrorizzati dalla caduta del loro capitano.
Hyari sorrise istintivamente, ma il suo lato razionale le ricordò che avrebbe dovuto essere arrabbiata con lui per la sua imprudenza e guardò l’Aquila come se dovesse sole decidere con quale ricetta cuocerla dopo averla accuratamente spennata.
Soron non ebbe bisogno di vedere quell’occhiataccia per capire cosa lo aspettava, ma nei dieci secondi che servirono a Hyari per spegnere il fuoco si sentì come se la maga lo stesse pugnalando alla schiena con lo sguardo.
Fion sogghignò e non appena le fiamme si dissolsero sguainò la spada che la maga gli aveva ceduto e si lanciò verso una guardia che stava per staccare la testa di Soron colpendolo alle spalle con un tondo maldestro, ma con ottime possibilità di riuscita. Il soldato cadde a terra con un gemito, ma il Mezzo non ebbe il tempo di esultare che già altri cinque presero il suo posto.
«Non possiamo sconfiggerli tutti.» ammise Hyari, arretrando e piegandosi per schivare un coltello da lancio. «Sono troppi.» aggiunse, schiaffeggiando il suo avversario con una frusta di fuoco nonostante la stanchezza: la voglia di vivere le dava la forza di restare in piedi.
«Lo so.» le rispose Soron, decapitando senza pietà un altro gorilla.
«Che facciamo?» domandò Fion ai due ribelli, dimentico ormai dell’odio per il fratello, che combatteva al suo fianco come un tempo. Avanzò per affondare la lama in una corazza, ma il suo avversario riuscì a fermare la lama e poco mancò che un suo compare gli tranciasse di netto il braccio.
«Fuggiamo.» sussurrò Soron, col fiato corto, trapassando senza esitare il collo dell’attentatore.
Fion sorrise istintivamente, ma non perse tempo a ringraziare. Si limitò ad annuire e a tentare di arretrare, lentamente, per non rischiare di lasciare ai nemici un varco nel quale infilarsi per prenderli alle spalle.
Hyari annuì a propria volta e serrò la mascella, richiamando a sé le ultime forze a disposizione: poteva procurare quel minimo di tempo indispensabile alla fuga ed era suo dovere riuscire. Deglutì, sussurrando parole incomprensibili e plasmando rapidamente il fuoco in modo che formasse un muro di fronte a sé e ai due Mezzi, alimentandolo con un’ampolla di liquido che aveva portato in previsione di una simile evenienza.
Soron sorrise, e vedendola vacillare rinfoderò la spada e la prese in braccio, correndo senza esitare verso la salvezza, mentre le urla di frustrazione dei soldati li inseguivano nei vicoli, pensando solo a ciò che avrebbe voluto fare una volta fuori da quell’inferno e non alla stanchezza che gli mordeva i muscoli.
«Resisti, fratello.» lo incitò inaspettatamente Fion, mosso dai suoi stessi pensieri e seguendolo senza esitare, ma con la spada ancora sguainata: sentiva distintamente la corsa disordinata dei loro inseguitori e non aveva intenzione di morire a pochi passi dalla salvezza, non ora che aveva giurato di tornare a casa a qualunque costo.
Soron annuì e continuò a correre nonostante il tremito delle gambe.
«Eccoli!» urlò una guardia alle loro spalle, sollevando una balestra e puntandola verso il cuore di Fion. Per fortuna del Mezzo, la sua mira non era così buona e infatti la freccia mancò abbondantemente il bersaglio, ma riuscì ugualmente ad infilarsi nel suo braccio destro di Soron.
Fion se ne accorse, e per la prima volta avvertì dentro di sé uno strano contrasto: una parte di lui gioì per la sofferenza del fratello e gli fece venire voglia di sorridere, ma un’altra provò dispiacere, rabbia e desiderio di fermarsi per affrontare e punire il soldato, ma il raziocinio - supportato dall’istinto di sopravvivenza - mise a tacere entrambe le parti e gli intimò di continuare a correre.
Il soldato sbottò e ricaricò la balestra. «Non mi sfuggirete!» urlò, puntando al polpaccio di Soron, e stavolta ebbe più fortuna: riuscì a colpirla di striscio e a strappargli un gemito.
Fion quasi ruggì, stritolando l’elsa della spada, e di nuovo fu il desiderio di tornare a casa a impedirgli di voltarsi per gettarsi contro l’uomo che stava tentando di ucciderli.
«Manca... poco.» ansimò Soron, intravedendo l’uscita e rallentando, ormai allo stremo delle forze.
«Sei sempre stato un debole.» sbottò Fion, artigliandogli la giubba e quasi trascinandolo verso l’uscita: voleva disperatamente salvarsi, e ci sarebbe riuscito a qualunque costo.
Un’altra freccia sibilò verso di loro e stavolta riuscì a infilarsi nel fianco destro di Fion - evidentemente il soldato con la balestra aveva capito come colpirli: mirando altrove.
“Che la terra si apra e ti inghiotta.” gli augurò, ormai senza fiato, mentre l’oscurità del vicolo si spalancava benigna di fronte a loro.
I due Mezzi respirarono a pieni polmoni l’aria frizzante dell’alba che diventa mattino e quando la nebbia li avvolse ringraziarono mentalmente Shaluriel: nessun umano avrebbe mai potuto seguirli, se non li avesse sentiti. Ma era ancora troppo presto per festeggiare: dovevano mettere almeno tre o quattro vicoli tra loro e quei gorilla se volevano che la nebbia servisse a qualcosa e quindi ripresero a correre, cambiando più volte direzione per far perdere le proprie tracce, ma sempre puntando ad uscire dalla città. In lontananza sentivano le imprecazioni dei soldati che tornavano indietro e la voglia di deriderli era fortissima in entrambi, ma solo un folle suicida avrebbe fatto una cosa del genere, e loro non lo erano.
Soron respirò a pieni polmoni, appoggiandosi per un momento al muro sudicio di una casa ed anche il tanfo dei canali di scolo non gli parve così male in confronto all’odore del sangue che aveva dovuto spargere - nonostante sapesse che era necessario per liberare Lysim dal giogo del Tiranno, uccidere non gli piaceva e l’idea che ormai gli risultasse così facile, così naturale lo terrorizzava a morte. Ammetterlo almeno con se stesso lo aiutava a non sentirsi del tutto un mostro. Sospirò, stringendo a sé il corpo caldo della maga priva di sensi e fece cenno col capo al fratello di seguirlo. Una parte di lui - quella razionale - gli diceva di bendarlo, ma l’affetto che si era finalmente risvegliato in lui oppose una ferma resistenza e gli impedì di compiere una tale dimostrazione di sfiducia.
“Vedrai che Hyari mi darà ragione.” sussurrò perfidamente la Ragione nel suo orecchio, ma il Mezzo scosse lievemente la testa e si inoltrò tra i vicoli e gli alberi che con essi si mischiavano senza esitare.
Fion rinfoderò la spada, strappò bruscamente la freccia dal fianco e lo seguì inespressivo, medicandosi alla buona e di nascosto, come se si vergognasse di essere stato ferito per aiutare il fratello. Una parte abbondante di lui gli diceva che era una cattiva - no, una pessima - idea e che questa scelta lo avrebbe trascinato in un mare di guai; gli ricordò che di problemi lui ne aveva più che a sufficienza, ma per una volta il Mezzo scelse di ignorare la vocina che gli aveva salvato la vita innumerevoli volte e scoprire per scoprire in che razza di guaio si era cacciato il gemello: in fondo glielo doveva, visto che era venuto a salvarlo, e poi magari poteva essere il modo per tornare a casa, finalmente.
 
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